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A forza di essere empatici siamo diventati antipatici


La fotografia "da un'altra parte" è di Gabriele Cometto


Vogliamo essere empatici ma diventiamo antipatici


Domande o risposte?


Parafrasando Claude Lévi Strauss son le domande non le risposte che cambiano la vita.

Questo post nasce infatti da una domanda che ci è stata posta nei giorni scorsi e che ci ha portato a riflettere sulla reale importanza dell'empatia.

L'empatia (dalla Treccani "empatia significa capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro") è diventata infatti un must culturale, una conditio sine qua non di ogni riflessione sociale e organizzativa (e manageriale), immanente e intoccabile.


Pertanto di fronte infatti alla domanda " ... ma per diventare leader serve maggiore empatia? " la risposta dovuta e politically correct sarebbe dovuta essere " ... ma certo che sì nessun leader può mancare di empatia ...".

E invece no, non ce la siamo sentita di dare questa risposta perché istantaneamente abbiamo passato in rassegna i veri leader, fatti di carne ossa e strategia, che abbiamo incontrato nella nostra vita, per concludere che nessuno/a di loro era realmente, e propriamente, empatico/a anzi qualcuno/a era proprio "anti empatico/a".


Fermiamo un secondo la nostra riflessione per specificare che cosa intendiamo per leader: il leader per noi non è chi ha un forte appeal sulla massa, bensì chi sa incidere in modo netto (ed evidente) sulla realtà dei fatti, modificando in meglio l'organizzazione (o situazione) sulla quale interviene creando, allo stesso tempo, i presupposti per la sua continuità e sostenibilità nel tempo. Parliamo quindi di una leadership incisiva e fattuale.

Certo essere empatici non guasta ma senza esagerare: un leader ha orizzonti temporali lunghi in virtù dei quali può mettere in campo molte risorse che possono compensare, e a volte servono di più, la mancanza di empatia.


Partiamo quindi da questo dato di osservazione per riallineare l'empatia alle altre capacità possiamo e per guardare con occhi e mente più critica il trend relazionale in voga, che la letteratura e i modelli comportamentali ci stanno proponendo ormai da tempo, che ci impone di sintonizzarci con gli altri ma senza avvertirci però del rischio di farlo in modo sbagliato sbilanciandoci eccessivamente su di essi.


A forza di essere empatici diventiamo antipatici


A forza di voler comprendere i processi mentali altrui, perdiamo il contatto con i nostri, per agganciare gli altri perdiamo il self engagement, l'ingaggio di noi stessi: annacquiamo la nostra autenticità, indeboliamo la nostra centratura, perdiamo il nostro equilibrio.

Nella nostra professione, nelle organizzazioni, vediamo molti, troppi così tanto concentrati sull'empatia, così ansiosi di contatto con gli altri da non vedere (e capire) più il proprio ruolo nella relazione, non comprendendo e interpretando le proprie responsabilità e le proprie scelte. Tutto ciò si traduce in una definitiva rinuncia a essere se stessi.

Sun Tzu, nell'Arte della Guerra, dice che conoscere gli altri serve per vincere la guerra ma solo se, contemporaneamente, si conosce se stessi: teniamolo sempre in mente.


Tutto ciò diventa ancor più complicato quando sono in tanti a essere così "empatici" e interagiscono tra loro con questa stessa modalità: il livello di confusione aumenta in modo esponenziale, il senso di responsabilità, autenticità e focus sugli obiettivi si perdono definitivamente.

L'interazione si trasforma in una marmellata relazionale dove tutti entrano con le migliori intenzioni ma ne escono con le ossa rotte e rancorosi verso l'altro perché alla fine non si comprende più chi e chi, chi vuole che cosa, chi deve fare che cosa.

In altre parole per la foga di proiettarsi sullo stato d'animo altrui si perde la capacità di essere autentici veri e attrattivi: si diventa falsi e antipatici e pure rancorosi e scontenti perché non si soddisfiamo più i propri bisogni. In altre e poche parole si perde lucidità.


Soprattutto nelle organizzazioni le relazioni devono servire a comunicare e far comprendere il proprio punto di vista (la propria idea e il proprio obiettivo e progetto): la relazione ideale è l'incontro fertile di due persone serene che vogliono trasmettere il loro autentico punto di vista che diventa confronto prima e sintesi, condivisa dopo.

Se però si perdono i contatti con la propria posizione questa non potrà mai essere esposta, spiegata e confrontarla con quella degli altri.

Non solo, accadrà che che verranno accusati gli altri di non aver ascoltato quando il problema è che nessuno ha comunicato e spiegato loro che cosa dovevano ascoltare e comprendere.


Stiamo su di noi, con coraggio e autenticità


Non c'è nulla di male nel sintonizzarsi su noi stessi prima ancora che sugli altri e a rimanere simpatici anche a costo di essere meno empatici.

Non facciamoci carico di comprendere gli altri se gli

altri non si fanno carico, a loro volta di dirci chi sono e cosa vogliono: ognuno è responsabile di comunicare se stesso.



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