La bellezza della semplicità (anche nel management)

In tutte le arti ci sono correnti che hanno come regola e canone di bellezza il riuscire a conquistare la semplicità. Un principio al quale non può sfuggire anche la nostra arte, quella del management.
Immagino già il primo "appunto" sul fatto che io accosti il concetto di arte al management, rilievo al quale potrei replicare, citando l'enciclopedia Treccani, che se arte è in senso lato, "ogni capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche", managing people o gestire persone "per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati" si può coniderare come un'arte.
La bellezza del management passa, a mio parere, dalla semplicità, dal saper essere essenziale e lineare, quasi minimalista (il leader di Mandela che sapeva stare dietro le fila quasi in silenzio). D'altro canto cosa c'è di più semplice nell'individuare un obiettivo, scegliere le persone che son funzionali al raggiungerlo (e lasciare quelle che non lo sono), dare loro i più corretti e idonei strumenti informazioni e conoscenze, esserci per loro e con loro, agire con loro o far agire loro, e, infine, misurare i risultati.
Sinceramente, lungi dal voler banalizzare un argomento che tiene impegnati accademici consulenti e manager stessi da decenni, non ritengo che questo elenco di azioni e comportamenti sia di difficile applicazione, se infatti lo fosse il genere umano si sarebbe già estinto e le organizzazioni, micro o macro che siano, durerebbero lo spazio di un mattino.
Succede però che lungo questo percorso percorso la o il manager rischia di cadere in una serie di tranelli originati dal non saper resistere alla tentazione di aggiungere quel "qualcosa" di suo che gli sembra tanto indispensabile quanto irrinunciabile, ma che può diventare devastante ai fini del risultato finale. E questo accade perchè essere "semplici", agire con "semplicità", è quasi contro istintivo per chi sceglie un mestiere che ha in sè innegabili e inevitabili forme di protagonismo (dalla semplice rilevanza nell'organigramma all'essere comunque un riferimento visibile nei processi e nelle relazioni interne o esterne all'organizzazione).
Essere semplici non è sicuramente facile, non a caso Leonardo definisce la Semplicità come ultima delle sofisticazioni o come sofisticazione Suprema.
Quasi come un paradosso essere semplici non è semplice: la spinta, una pressione a tratti intensa, che sale dal proprio interno, ad aggiungere diventa irresistibile, dicevamo quasi istintiva, per chi, come un manager, sente il fascino ma anche l'importanza del risultato che è chiamato a conseguire.
Ma è proprio da questo, dal fascino e dal peso del risultato, che nascono quei tranelli e tentazioni che generano "l'ansia dell'aggiungere, di complicare". Parte da qui, dall'inizio la distorsione cognitiva che porta a mal interpretare il significato del risultato che si è chiamati a conseguire: "a chi deve portare utilità ciò che mi appresto a conseguire, a me o all'organizzazione?" E ancora, "ma l'organizzazione chi è chi sono gli interessati alla sua vita e ai suoi esiti?
Sarà banale, ma utile ricordarlo, che un manager non è ingaggiato o pagato per la sua prestazione, bensì per quella finale dell'organizzazione in cui lavora e che ciò che si deve vedere non è il suo risultato ma quello dell'organizzazione tutta.
Interpretare il risultato che viene richiesto come una sfida individuale egocentrica che necessita di un pesante coinvolgimento personale è il primo errore sulla strada della semplicità, e della bellezza. Errore che porta dritti e senza scampo alla confusione degli obiettivi e dei fini: obiettivi nei quali il manager "non semplice" include le proprie (e inutili) finalità o comunque quelle più affini) e sempre inutili) a un suo particolare (e a volte soggettivo) protagonismo. Mi sembra quasi di sentire l'obiezione "... ma se non c'è la mia impronta allora a cosa servo? "
E con questo pensiero in testa che il manager viene assalito dalle paure che ne bloccano l'azione, la irrigidiscono e la privano di armonia e bellezza. Paure che portando Lowen nell'organizzazione sono sei, quella di scomparire tagliato fuori dall'azione, di non avere seguito e essere abbandonato, di decidere e di non piacere, di confrontarsi e confliggere (evitando quindi la minaccia del conflitto o al contrario esorcizzandola facendo diventare tutto un conflitto), di fallire e di non poter controllare tutto e, infine di esporsi e essere tradito.
E con questo pensiero condizionato dalla paura che il manager si avvia a cercare persone che piacciono a lui e non quelle che servono alla mission, le coinvolge nella misura in cui esse riconoscono il suo ruolo e non nei modi e nei tempi che servono a loro per comprendere cosa devono fare come e con quali strumenti, agisce per vedersi nell'azione e non per analizzarla lucidamente e indirizzarla verso l'obiettivo e, infine, non si accontenta del risultato finchè non vede che quel risultato parla di lui.
Un gigante (per il suo ruolo sociale e nell'organizzazione) dai piedi d'argilla che invece di rafforzare i suoi piedi si concentra sul trovare appoggi esterni che ne consentano la stabilità e l'equilibrio, un gigante che non cerca la centralità e radicamento in se stesso ma dirige il suo sguardo e la sua azione solo all'esterno per trovare lì la prova della sua forza o a volte semplicemente della sua esistenza.
Detto tutto ciò diventa immediato comprendere che se l'azione manageriale viene ridotta alla sua essenza - conseguire un risultato attraverso la gestione di persone - e non viene usata dal manager stesso per vedersi, sentirsi, raccogliere consensi e misurare la propria immagine, è un'azione bella. E il bello, in natura, coincide sempre con l'efficace.
Il contrario è pura eterogenesi dei fini, una catastrofica situazione in cui nè i risultati personali nè quelli organizzativi sono raggiunti
Essere semplici non è semplice ma ... se mai si inizia mai si finisce: è necessario quindi diventarne consapevoli, lavorare per togliere e non per aggiungere e soprattutto sfuggire dalla dipendenza del "più mi vedo" là fuori, nel mondo e "più esisto".
Son convinto che anche Leonardo sarebbe d'accordo.